Vuoto a Rendere

Vuoto a rendere.

Aeroporto di Milano, amo andarci per la facilità dei treni da Cadorna, ci arrivo con i primi bermuda del 2019, le gambe bianche di chi è cittadino e non si ricorda che oltre i palazzi ci sono mondi di cui è inesperto. Amo andarci ma quando arrivo poi mi pento: abituato ai treni dove sali e ti portano rapidi per le campagne, da città a città, là mi scoraggio subito. Esito di fronte ai varchi di sicurezza, la fila, la gente che si ammassa, l’energia un po’ alta di chi va in vacanza, l’io collettivo è felice, si riempie di parole, di scherzi, indugia in banalità. Cerco di non ascoltare, ma le file serrate costringono intimità non volute, improbabili. Pur sorvolando le ovvietà che mi sfiorano, non ne esco indenne, ma l’essermi concentrato sui volti e sulle storie che rivelano, mi ha aiutato a sentirmi parte della famiglia umana, nonostante tutto.

In realtà tutto scivola abbastanza liscio, sono dentro al fantastico mondo di boutique che si fingono ricercate e di bar che ricordano costantemente al viandante che “tanto quello sei”, quindi che sei sempre tu, anche se viaggi: identici i vuoti che ti inseguono e quindi vuoi quei cibi, proprio quelli che li riempiono, anzi, ora che sei più “libero” o che speri di esserlo, sdogani desideri, ti autorizzi. E mangi, e bevi.

È a questo punto che noto – ma ogni volta mi accade, anche in treno – quante bottigliette di plastica ci sono in giro. In più vedo che vengono gettate sempre piene d’aria e, come mi ha appena confermato la custode uscendo di casa, alla quale consigliavo di mettere un cartello sul bidone di raccolta ove scrivere “si prega di svuotare le bottiglie prima di gettarle”, l’invito eventuale nasce disatteso, quindi inutile. Non che le persone non vogliano farlo, semplicemente non ci pensano: il livello generale di attenzione è talmente scarso che se ne dimenticano, pur sapendolo. È quel “deficit di presenza” per cui anche al supermercato vedi persone in trance che portano i carrelli senza sapere dove sono, non solo i carrelli ma anche i loro corpi, stile domenica da Ikea. Solo i bambini se ne accorgono e, provando ad imitare i genitori vagano anch’essi, fino all’arrivo del ceffone.

Lo stesso accade anche quando, varcando l’uscio di un bar, tieni la porta aperta per gentilezza a colui o colei che passa ma non ti degna neanche di un sorriso, non dico un “grazie”, basterebbe uno sguardo complice. Ma no, la mente colma di pensieri e ridondanze, trasla il presente altrove, nel virtuale. Non ultimo il famigerato device tascabile, il cellulare, storna l’individuo in luoghi immaginari, sorride, parla con l’amante, discute business e cerca risposte. Soprattutto risposte cerca, indaga nei profili d’altri, cerca di capire, di scorgersi. Ma si elude, sempre. È un’elusione cronica, quella nostra oggi, perché si cerca dove non si trova nulla, il maestro taoista direbbe che “è inutile rifare il tetto della propria casa se dal cielo piovono macigni”.

Così vago tra le boutique del porto franco, ho sete ma non voglio partecipare al cumulo della plastica, a cosa serve osservare un dramma contemporaneo, esserne coscienti, se poi non ci si comporta di conseguenza? Così mi avvicino al bar, faccio la fila e chiedo timidamente se si può avere un semplice bicchiere d’acqua, lo dico piano, non voglio sembrare come quello che chiede la provenienza della carne al ristorante, o delle uova, cosa che faccio abitualmente, sorridendo e scherzando così da farne un gioco e non un’offesa. Perché non lo faccio per riprendere gli altri, ma per l’ambiente, che non è un concetto astratto, ma è noi, anche quando non ci pensiamo e tuttavia ne facciamo parte.

Ambiente che è mia figlia, il mondo che erediterà da me.

Cosa incredibile il barista, della mia generazione, mi dice ‘certo!’ e capisce al volo tanto che commenta l’uso smisurato delle bottiglie di plastica, anche da parte loro. E mi versa un bel bicchiere d’acqua, purtroppo da un’altra bottiglia di plastica, ma di dimensioni diverse, e come tutti sanno è già qualcosa. Berla nel vetro poi è fantastico.

Allora corro indietro negli anni, scavo nella memoria e mi chiedo: come facevamo noi da bambini?

C’erano le fontanelle, a Roma, un’invenzione civilissima, semplice e benedetta, ci arrivavi con una sete primordiale, con tale foga che inciampavi in prossimità, quasi sempre. Quando tornavi a casa, col bernoccolo da ghisa, non era bello dire che avevi inciampato alla fontanella, quindi dicevi di essere caduto giocano a calcio nel parco, con gli amici – ma la parola parco è del nord, a Roma c’erano le Ville, residuo di sfarzi antichi, non tuoi, diventati poi di tutti.

Come era bella la fontanella, o il bicchiere grande del bar! Preso da una bottiglia di vetro, tenuta nello scomparto di metallo del bancone, freddata dallo scorrere delle acque fredde, vetro che sapevi che qualcuno aveva portato nel bar, a casse, e poi avrebbe ripreso una volta vuoto, il famoso vuoto a rendere, altra pratica civile e altruistica, ora residuo per pochi scrupolosi, praticamente una nicchia di fissati, dinosauri.

E se non c’era un bar né una fontanella? Ti tenevi la sete, semplice! Non c’erano ancora quei medici-nutrizionisti-assolutisti che ti guardavano minacciosi dicendoti, come fanno oggi, che devi bere 3 litri d’acqua al giorno! Dillo a noi bambini di allora, dillo anche a quelli di oggi, che sanno quando hanno sete, che sanno quando hanno fame, lo sentono! Noi non sentiamo più nulla, bisogna mangiare questo e quello, bisogna bere questo e quello, e va fatto a quell’ora, non prima né dopo, sono doveri verso il corpo, il corpo divenuto un oggetto estraneo ma glieli dobbiamo questi atti, non si capisce se li abbia sanciti il Padreterno o se siano scoperta di questa scienza che oggi afferma e domani confuta ciò che ha appena affermato.

L’importante è essere sicuri, quando si afferma. Assoluti. Carboidrati, Proteine, Grassi e tanta acqua, tantissima, devi girare con la tanica!

E la tanica sarebbe più civile ma è scomoda, così tutti girano con le bottigliette di plastica perché il medico lo ha detto, pretendono reni sanissimi ma non sanno come mai poi si ammalano di cistite, o di calcoli, forse hanno scelto l’acqua sbagliata, cavolo che distrazione, mi sono fidato di quella mia amica, mi aveva detto di prendere quel marchio, che ingenuo.

E poco importa che sistemi di medicina più scrupolosi e antichi ci dicevano di bere quando avevi sete, solo quando il corpo lo chiedeva, proprio come fanno i bambini da sempre. Sì i bambini sanno sentire il corpo, gli adulti no, sono razionali, pensano, leggono, studiano, si documentano, si fanno convincere. Perdono spontaneità e alla fine pensano di aver scoperto il segreto della longevità, peccato che dopo dieci venga confutato dal successivo, peccato che tutti queste formule di salute abbiano in comune il non-sentire, il non-essere-più-in-grado-di-sentire-nulla-di-sé-stessi. E abbiano in comune un utilizzo patologico della mente, ossessivo. E poi che bellezza c’è nel diventare anziani dopo un’intera esistenza normativa, da obbedienti? Per avere una vecchiaia obbediente? O per venire obbedientemente dimenticati?

Bevo il mio bicchiere d’acqua e guardo con complicità il barista, che ricambia e lo stesso faccio sull’aereo, quando ordino una bottiglia di prosecco – per dimenticare la mia appartenenza all’umano – bottiglia tassativamente di vetro che mi porgono con altra plastica, il bicchiere, che subito rifiuto e lo stuard mi lusinga, ce ne fossero di persone come lei, quanta plastica vediamo noi ogni giorno.

Mi sento alla fine bene, un po’ brillo e quindi bene, vicino a quelli che si sono resi complici, che so essere di più di quello che sembra, ma la gente è timida, non vuole andare controcorrente se non tatuandosi qualcosa di grottesco sul corpo, quella ribellione sì, la sanno fare, soprattutto i giovani, ma poi seguono i percorsi comuni, studiare, lavorare, produrre, generare profitto. Mettere su famiglia e mettere i propri risparmi in tempo in un fondo pensioni.

Io non so dove sarò tra 20 anni, né dove arriveremo tutti, se saremo sommersi dalla plastica perché l’assenza cronica ci avrà impedito di vedere quello che facciamo o perché troppo pavidi per disobbedire ai dettami sociali, alla loro pressione costante. Non so. Mi piace pensare di essere come quel vuoto a rendere del bar in via Belluno, a Roma, dove sono nato. Lo ricordo quel bar-torrefazione, odorava di caffè in un modo bello anche per noi piccoli, che il caffè non amavamo ma il profumo sì, sapeva di genitori e di cose da grandi, di una vita che attendeva. E tra una fontanella e un bernoccolo di cui vergognarsi un poco, tutto potevamo immaginare tranne trovarci in un mondo invaso dalla plastica, un mondo ancora bello ma gremito di individui assenti, vaghi, devoti di una mente pragmatica e materiale. E dei cellulari che nulla contengono di noi, e dei tatuaggi, che scrivono sulla pelle cose della superficie di noi, mai del dentro.

Siamo vuoti a rendere, nasciamo vuoti e vuoti ce ne andiamo. Se di vetro, qualcuno ci prenderà per darci altra vita. Se di plastica, verremo gettati pieni e tronfi nei ricicli collettivi, materiale inerte pronto ad essere fuso.

Spero che nei paradisi che ci attendono ci sia il bicchiere di vetro ma non la plastica, che ci siano le persone e non i social, il vedersi e non lo scriversi un messaggio. Che ci siano fontanelle, in paradiso, questo mi piacerebbe, senza inciamparci dentro. E ci siano persone deste che guardino la vita intera, quella che in vita hanno temuto. La guardino e la prendano così come viene, senza calcolare sempre tutto. Con poca attenzione ai dettagli futili e un po’ di più agli altri, all’ambiente, a ciò che ci circonda, questo sì – il presente eluso.

Per gentilezza, mi vien da dire. Per amore.

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